Riteniamo di fare cosa gradita ai nostri lettori ripubblicando questo brano di Hahaiah, da molti ritenuto un classico della letteratura alchemica. Onde evitare fraintendimenti, tuttavia, ci è doveroso segnalare che come tutti gli alchimisti, anche Hahaiah si è adeguato al comportamento dei Filosofi e pur dando utili chiarificazioni ha mischiato ad esse vari trabocchetti in tal modo rendendo l’insieme comprensibile solo a chi è in grado di superarli. Così facendo egli è venuto in soccorso degli studiosi senza tradire il patto degli ermetisti di non dire più di quanto sia loro consentito da una legge morale sempre e comunque rispettata.
PROPOSIZIONI
1° E’ vero, è vero senza errore, è certo e verissimo.
2° Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare il miracolo di una cosa sola.
3° Come tutte le cose sono sempre state e venute da Uno, così tutte le cose sono nate per adattamento di questa cosa unica.
4° Il Sole ne è il Padre, la Luna è la Madre, il Vento l’ha portato nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice. Il Padre di tutto, il Telesma di tutto il Mondo è qui; la sua potenza è illimitata se viene convertita in Terra.
5° Tu separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dallo spesso, dolcemente, con grande industria. Ei rimonta dalla Terra al Cielo, subito ridiscende in Terra, e raccoglie la forza delle cose superiori ed inferiori.
6° Tu avrai con questo mezzo tutta la Gloria del Mondo, epperciò ogni oscurità andrà lungi da te. E’ la forza forte di ogni forza, perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida.
7° E’ in questo modo che il Mondo fu creato.
8° Da questa sorgente usciranno innumerevoli adattamenti, il cui mezzo si trova qui indicato.
9° E’ per questo motivo che io venni chiamato Ermete Trismegisto, perché possiedo le tre parti della filosofia del Mondo.
10° Ciò che ho detto dell’operazione del Sole è perfetto e completo.
Autore di questa Tavola fu un Hermes, un essere, cioè umano e divino, il quale aveva saputo fondere nel proprio crogiuolo tutto se stesso, sollevandosi nella natura essenziale del ternario, fonte perenne di vita incorruttibile, che lo rese tre volte grande o trismegisto.
Il particolare nucleo di praticanti a cui queste note sono indirizzate mi dispensa da chiarimenti audaci e, peraltro, essi costituirebbero nei loro confronti una irriverente pretesa, se non fossero ispirati al principio ammesso e permesso in taluni casi dall’Ordine Osirideo Egizio di “potersi consultare su determinati punti di controllo, secondo la formula fondamentale della rivelazione ermetica” che è superfluo ripetere a chi già la conosce.
Ai fini, pertanto, di una sempre più salda impostazione del teorema alchemico non mi pare di offendere la loro sensibilità ricordando che lo smeraldo è il colore di Venere e che il segno corrispondente a questo pianeta è lo stesso segno di mercurio, privato della luna, ossia privato del principio formale.
Perché poi le proposizioni siano dieci, cioè uno e zero, e perché in esse sia molto richiamata e commentata la decima chiave del Tarocco, è cosa che essi certamente sanno.
Ma non è mai troppo soffermarsi su certe coincidenze di numero e di simbolo, riunitamente e separatamente considerate, perché a volte piccoli (apparentemente piccoli) riferimenti trascurati, possono interferire negativamente sui risultati attesi, donde disinganni e reazioni, che richiedono tempo, soprattutto tempo, per poter essere assorbiti, ovverosia eliminati.
Senonché cotesto fattore, il tempo, cioè, quando non è tenuto nella debita considerazione, mal si accorda col successo ambìto, perché – come in tutte le opere di creazione – esso ha un’importanza specifica; mentre col fare, sostare, disfare e rifare se ne va nel suo fiume la parte più preziosa della nostra esistenza, oltre la quale non restano che la rassegnazione e… la morte.
E consideriamo ora brevemente – come si conviene a siffatti rispettabili praticanti – il testo della prima proposizione.
E’ vero, è vero senza errore, è certo e verissimo.
Su questa triplice affermazione se ne sono scritte di tutti i colori. Vi si diffondono Eliphas Levi, il Cremonesi e, con grande sfoggio di filosofia, il dottore L. Iesboama nel Commentarium, al cui testo rimandiamo il lettore interessato o curioso.
Ma è bene precisare che l’ermetista classico non ha niente da vedere col filosofo pedante, tutto assorto ed assurto nelle astrazioni concettuali dei più arditi pensieri e delle più sottili induzioni.
L’ermetista classico è un pratico, che ha constatato dei fatti e ad essi si riferisce, più che alle loro cause, sulle quali non è raro che anche per lui resti inesplicabile il velo del mistero.
E proprio per questo, per non poterne dare, cioè, una spiegazione esauriente e tale che soddisfi le esigenze di una logica spesso trionfante per facile dialettica, è costretto a darne ripetute assicurazioni, come chiunque è ansioso di corroborarle con insistenza, magari giurando su questo o su quello.
Interpretata in questo spirito, semplicisticamente, la triplice affermazione appare legata non solo al desiderio, ma anche al bisogno di persuadere e di guadagnar credito. Al desiderio, per le ragioni anzidette, ed al bisogno, perché il Trismegisto, che sa il fatto suo, preso da perplessità, vuol dare il massimo incoraggiamento all’impresa.
Perché poi questa perplessità?
Perché gli errori e gl’insuccessi non sono né pochi né rari; non mancano mai di conseguenze e disarmerebbero le più forti e tenaci volontà.
Ma quando uno, che nel prosieguo delle sue enunciazioni mostra una ammirabile scienza, insiste nel dire che è vero, è vero senza errore ed è certo e verissimo quello che dichiara, allora vuol dire, a mio avviso, che malgrado gli errori, gli insuccessi e le conseguenze di cui sopra, non bisogna desistere, né infirmare la validità del procedimento suggerito, ma piuttosto rivedere il proprio operato con fede e sagacia se… il tempo e le altre condizioni richieste sono ancora matematicamente armonizzate alla bisogna.
Pertanto il testo della prima proposizione va tradotto: “Puoi essere sicuro, perché mi consta personalmente e mi devi credere, la cosa va fatta certamente in questo modo”.
Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare il miracolo di una cosa sola.
Questa proposizione va esaminata, per così dire, “di dentro” e “di fuori”, vale a dire che prima bisogna mettersi nella condizione di chi l’ha scritta, di un hermes, cioè, come innanzi ricordato, e poi nella condizione di un uomo comune aspirante a quello stato.
Ma come fare? Occorre aiutarsi con delle immagini, e sarà poi il lettore intelligente a spingerne oltre le analogie per rendersi conto sempre più completo del loro valore.
Immaginiamo, ad esempio, un bel vaso pieno di acqua, ed immaginiamo altresì che l’acqua non sia, come abitualmente la consideriamo, un elemento materiale qualsiasi, ma un “essere cosciente e sensibile“.
Cotesto “strano essere-acqua” sposa i limiti della forma che lo contiene e ne avverte, contro le parti, la natura resistente e solida, fissa e stabile, tutta opposta alla propria, di consistenza sua particolare.
A poco a poco, per assuefazione della sua coscienza, finirà per sentirsi “tutt’uno” con la forma che lo contiene, tranne dalla parte per la quale vi è entrato (bocca del vaso) la cui superficie libera, che per analogia si potrebbe paragonare al cervello, è a contatto con l’aria e gli dà l’impressione dell’infinito.
Qui, proseguendo nell’analogia, si potrebbe dire che se il vaso è trasparente non gli mancherà, anche dal limite che lo circoscrive, la visione e quindi l’impressione dell’infinito, mentre più il vaso è opaco e meno per questa via tale visione gli sarà possibile.
Come per assuefazione egli si sente tutt’uno col suo contenente, così tutt’uno si sentirà pure con l’infinito, dalla parte dove il contatto gli è possibile.
Ma in tali condizioni, vero cristo in croce, egli alternerà il suo stato di coscienza, secondo che più è esaltato il senso dell’uno o dell’altro contatto, dubitando alternativamente della propria realtà limite o della propria realtà infinita.
E’ la sua condizione speciale che lo fa dimentico di “se stesso” e tutto permeato dalle sensazioni inevitabili che gli vengono dal suo mondo-ambiente specifico.
Ma se gli fosse possibile “esaltare” se stesso fino a sentirsi – come realmente è – “acqua”, allora, per assuefazione col proprio elemento, egli avvertirebbe soprattutto la propria natura in una specie di separazione, o di oblìo delle impressioni precedenti, senza tuttavia perdere il privilegio della propria forma dovuta al vaso, né quello del contatto con l’infinito dovuto alla propria superficie libera.
In tali condizioni, prevalendo cioè la coscienza del suo “vero stato di essere” il basso (vaso) e l’alto (aria) verrebbero percepiti come due contatti di analoga importanza, ma di inversa natura: uno limitativo, concentrativo, fisso; l’altro, estensivo, dispersivo, mobile. Egli potrebbe allora dire: “Quello che è in basso è come quello che è in alto e viceversa, ecc.”. E cioè:
a) alto e basso mi sono ugualmente estranei;
b) esercitano egualmente un’influenza interferente sulla mia identità;
c) ma sono le condizioni indispensabili di contrasto alle quali debbo se posso sentirmi veramente “io” in una forma e a contatto con l’infinito, e cioè per sentirmi “una cosa sola o unica” con me stesso.
Ecco cosa vuol dire che il basso è come l’alto e viceversa, per produrre il miracolo “della cosa unica” in un vaso, s’intende, perché fuori di questa condizione non avrebbe alcun interesse alchemico.
Esaminata “dal di fuori” da un essere cioè non pervenuto alla identificazione con se stesso, la proposizione va rettificata così:
“Per produrre il miracolo della cosa unica occorre che l’alto sia come il basso e viceversa, vale a dire che tu pervenga alla constatazione degli inversi limiti che ti condizionano, attraverso una forma di separando che in realtà non ti separa dal tutto, ma ti restituisce a te stesso”.
Come tutte le cose sono sempre state e venute da UNO così tutte le cose sono nate per adattamento di questa COSA UNICA.
Abbiamo già chiarito, grosso modo, cosa sia questo UNO, o COSA UNICA, o HERMES, e cioè:
a) un essere umano e divino
b) tutto fuso nel proprio crogiuolo
c) sciolto nella natura essenziale del ternario
d) Uno con se stesso
per l’avvenuto miracolo di “una sola cosa”. Miracolo, da mirare cioè fissare e perciò stabilmente integrato, immortale ed eterno espressione purissima della volontà-intelligenza divina, in esercizio perpetuo e polluente di creazione.
Così caratterizzato, egli è omologo, nella propria sfera, al Principio-Uno da cui è tutto derivato e tutto è derivabile e, per analogo potere di adattamento, può derivare da se stesso ciò che vuole, SE PURE E’ IL CASO DI OPERARE DERIVAZIONI VOLUTE, con l’implicita conseguenza di assoggettarvisi e non, invece, come crediamo, quello di restare “puro” ed in se stesso, lasciando agli accostamenti passivi la cura di ingravidarsene a tutto loro vantaggio o rischio.
Egli, difatti, sempre puro e vittorioso, non ha bisogno alcuno di volere, ma sarà chi gli si accosta a sviluppare, volente o nolente, per fatale copulazione, i suoi germi fecondi, con risultato benefico o malefico, secondo che, nell’avvicinarlo, abbia concepito il bene o il male, mentre egli resta inalterato ed al limite superiore all’uno ed all’altro.
Nasce qui il grosso equivoco dei dilettanti, dei principianti e dei vagheggiatori sui “poteri” della magia.
I poteri dell’hermes (o del mago) non sono suoi (non saprebbe che farsene) ma sono lo sviluppo che conseguono (in campo isiaco e per la sua virtù o forza generante attiva) quelli che gli sono attribuiti, con la immaginazione, con la fede, o con la consapevolezza della tecnica di meccanismo che li rende propizi e benefici.
E quando non è così, trattasi di sacrificio o di missione accettata.
Ecco l’Unus, pollentissimus omnium, e non per nulla Mercurio (Hermes) è raffigurato irto e teso su un piede solo, in uno slancio nervoso verso l’alto, tutto pervaso di forza, quasi prossimo a spiccare il volo.
Ma qui la forma non inganni, perché è la sostanza che interessa. Sostanza Una, s’intende, e non bina, sostanza che sta al nucleo di ogni cosa esistente e che fa dire all’Hermes: “Come tutte le cose sono sempre state e venute da Uno, così tutte le cose sono nate per adattamento di questa cosa unica”.
E’ chiaro, pertanto, che in sede di adattamento la cosa una diventa bina e cioè partecipe della natura essenziale delle forme create, e mal si appongono coloro che a questa rivolgono la loro attenzione, perché l’UNO è l’UNO e in cifra araba si scrive: 1.
Il Sole ne è il Padre, la Luna ne è la Madre, il Vento lo ha portato nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice. Il Padre di tutto, il Telesma di tutto il Mondo è qui; la sua potenza è illimitata se viene convertita in Terra.
Il Sole ne è il Padre la Luna ne è la Madre.
Di chi?
Dell’Uno, s’intende, dell’uno sempre, come innanzi inteso, il quale nascendo dal connubio degli opposti, ne riproduce i caratteri, riuniti in se stesso, ovverosia in “una cosa unica”. Processo genetico, cotesto, di inattaccabile verità, confermato in fisica, cioè in natura, e da rettificare con l’aiuto dell’arte.
Il Vento lo ha portato nel suo ventre.
Il vento, come si sa, è circolatorio e nasce da due zone di opposta temperatura. E qui si tratta appunto di circolazione, come rilevasi altresì dalla decima chiave del Tarocco.
Vento di scirocco o di tramontana?
Temerario colui che, impugnato il manubrio, ne imprenda il moto con ignara mano! E’ necessario sapere per osare, volere per creare, tacere per serbare. Un ansito di produzione gli gonfierà il petto, un’emozione trepida gli annunzierà che la mèta è vicina, un’illusione ottica – quando più vorticoso sarà il giro – fonderà in una visione unica i due genii… Poi ruota e genii ed asse e manubrio spariranno, mentre il cuore vacilla (peccato!)… e un negrore ottenebrante (lapis niger) tutto offusca ed involve.
Ove sono? Chi sono? Non sono? E’ la morte?
No. E’ la vita. A me la terra, la nutrice inesausta si prodighi!
Non v’è produzione che non si nutra al suo seno ricolmo; ogni cosa attinge ai suoi fianchi possenti il tessuto del proprio sviluppo: la lussureggiante flora, ricca di semi che ne perpetuano la specie, la fauna copiosa, che sfida i secoli e le inclemenze.
Il Padre di tutto, il Telesma di tutto il Mondo è qui.
Attenzione. C’è un errore: manca una virgola. Il testo va rettificato così:
Il Padre di tutto, il Telesma di tutto, il Mondo è qui.
Il Padre di tutto: è la forza generante attiva.
Il Telesma di tutto: è una ripetizione pleonastica rafforzativa.
Telesma da teleo è compiere, condurre a termine, divenir compiuto, perfetto, giunto a maturità.
Il Mondo è qui: mondo (apri bene le orecchie) sta per contrario di im-mondo; da mondare, mondato, mondo, cioè senza scorza; il purificato. Quindi il puro da ogni scoria è qui.
La sua potenza è illimitata se viene convertita in Terra… rossa (ci manca, ma si intende) perché nella terra comune, a questo punto, crescerebbe solo petrusino (prezzemolo) e vesenicola (basilico).
Sta di fatto, comunque, che sole, luna, vento e terra sono il solito quadrinomio ricorrente, senza il quale l’Uno non si elabora, non si manifesta, non si purifica e non si converte.
Senonché il quadrinomio è raccostabile ai quattro elementi: fuoco, aria, acqua e terra, da cui si estrae la quintessenza, ed alle quattro lettere del Tetragramma, che, opportunamente scongiurato, ne manifesta una quinta (scin), la quale, inserita nel ben mezzo di esso, forma il nome cabalistico del Cristo (iod-hè-scin-vau-hè) che è l’Emmanuel o il Redentore della natura umana.
Tu separerai la Terra dal fuoco, il sottile dallo spesso, dolcemente, con grande industria. Ei rimonta dalla Terra al Cielo, subito ridiscende in Terra, e raccoglie la forza delle cose superiori ed inferiori.
E’ opinione notoriamente diffusa che un segreto alchimico esista e che sia gelosamente custodito. Anzi, perfino coloro che non ne sanno niente, ma hanno letto Schuré, Papus, magari Bésant e qualche rivistucola esoterica, ostentano un’aria di sufficienza e spesso ammiccano significativamente per passare tra coloro che sanno.
Essi sono, in verità, i più sicuri custodi del segreto e bisogna riconoscere che non ne parlano mai apertamente, né per rivelazione appropriata, per la semplice ragione appunto che non sanno niente.
Costoro, in fondo, non fanno male a nessuno, perché non danno “vie”, non prescrivono “pratiche” e non millantano “poteri”, paghi soltanto di darsi un pò di innocente importanza.
Ma ci sono quelli che hanno attinta o credono di aver carpita qualche notizia sicura, o che posseggono addirittura testi segreti, tanto segreti, invero, da cadere sotto gli occhi stupefatti perfino degli idioti, e non a caso.
Costoro hanno anche praticato, allettati da miraggi profani, e non ne hanno ricavato niente. Ma si gonfiano di sapienza, si circondano di mistero, si infiltrano tra i creduli, parlano a metà e, appena possono, stampano pure qualche libriciattolo sconclusionato, frutto molto spesso di plagio sfacciato e deformato, o di filosofia da strapazzo, sofisticando pedestremente su ciò che manifestatamente non hanno digerito.
Essi prendono molto sul serio ciò che dicono in lingua assai maltrattata e, frammezzo a notizie di seconda e terza mano, arricchite di citazioni autorevoli, personalmente non riescono a concludere nulla.
Sono poveri diavoli che credono con le loro indiscrezioni di violare il “segreto della rivelazione”, assumendosene la responsabilità (come se fossero dei responsabili) con aria di Maestri emancipati.
Ma come spiegare l’assolutezza di cotesto segreto con le indiscrezioni che ne trapelano?
Come spiegare l’esistenza di un Ordine costituito che si proclama in grado di garantirlo e le profanazioni dilaganti?
E’ semplice: notizie e testi (quando risalgono a persone serie) sono una “PROVA” e cioè soltanto un’indicazione per giungere, SE DEGNI, alla conoscenza del segreto, ma non sono il segreto.
Anche il Trismegisto, difatti, nella sua Tavola laconica quanto completa, non appena si tratta di toccare l’argomento principe, dice soltanto:
“Tu separerai, ecc.”
Ma in che modo?
Ebbene il “modo” non è stato mai trasmesso né con le parole, né con testi scritti ed è questa la garanzia sicura della custodia fra coloro che, pervenuti a conoscerlo, sanno di dover tacere e perché.
Il “modo”, quando non è tramandato per simboli pressoché ininterpretabili, si apprende per “VISIONE DIRETTA” entrando, in compagnia di un Maestro Iniziatore, nel laboratorio alchimico di una Loggia Ammonea ed assistendo ad una trasmutazione reale nel silenzio più rigoroso del Maestro e del Novizio.
Ma anche qui, per ovvie ragioni, la trasmutazione che consta di quattro operazioni con quattro risultati specifici, non viene “Mostrata” intera.
Si ferma alla terza operazione, e tutto ciò che se ne può dire a edificazione del circolo interno per il quale sono redatte queste note, qui di seguito sarà per la prima volta riferito senza fitti velami.
Il laboratorio alchimico è una comune stanzetta di forma quadrata, dalle pareti tinte rigorosamente in nero, con due opposte aperture piuttosto basse: una d’ingresso e una d’uscita.
Al centro vi si trova un cubo sul quale è disposto verticalmente un serpente di soffiato di Murano, che s’incurva circolarmente su se stesso (il serpente che si mangia la coda) avendo le fauci aperte, a poca distanza dalle quali termina la coda.
Il serpente, internamente cavo, ha una rigonfiatura ovoidale nella gola, alla cui base, presso la strozzatura inferiore, è inserito un filtro, a lato del quale si apre una valvola di scarico. La coda, cava come si è detto, termina con un’apertura, e tutto è riscaldato a bagnomaria con temperatura costante.
Il Maestro ingozza nelle fauci dell’animale una sostanza gelatinosa che preleva da apposito serbatoio laterale munito di rubinetto e questa va a cuocersi della rigonfiatura menzionata, donde a poco a poco sciogliendosi, attraversa il filtro e comincia a gocciolare nella parte inferiore. (Tu separerai la terra dal fuoco).
Quando attraverso il filtro non passa più nulla, per mezzo della valvola laterale si scaricano i depositi insoluti e con un ingegnoso dispositivo a manovra esterna, si porta su, attraverso la coda del serpente, il liquido ottenuto (sale dalla Terra al Cielo) fino a che dalla parte incurvata verso le fauci aperte esso vi comincia a ricadere (subito ridiscende in Terra).
A questo punto si sostituisce il filtro con un altro più sottile e si ripete tutto come prima. E così di seguito: sempre con un filtro più sottile fino a quando dall’estremità della coda non viene fuori alcun liquido, ma un vapore prezioso, cioè uno stato di essere della materia che sta fra il liquido e il gassoso.
Qui si chiude la prima operazione trasmutatoria, che allora può dirsi riuscita quando il vapore raccolto si congela in una massa omogenea opalina, che, ottenuta per passaggio di materia da uno stato all’altro, “raccoglie la forza delle cose superiori ed inferiori”, cioè la consistenza eterea e quella materiale.
L’insuccesso di questa prima operazione è fatale per chi s’intestardisca nel prosieguo senza le dovute rettifiche, le quali possono riguardare il tempo di apertura e di chiusura, la temperatura, le ostruzioni, le interruzioni, il bagnomaria e molte altre che stimo superflue enumerare.
In caso di riuscita, invece, poiché “il procedimento è lineare” si passa alla seconda operazione, che è identica alla prima, ma varia per un composito accessorio, il quale va miscelato al primo elemento trasmutatorio, con “determinati accorgimenti che sono la condizione indispensabile e necessaria all’ossidabilità, senza la quale la pratica resta nullificata e può divenire addirittura controproducente”.
Esso si estrae da “l’ortosvodum” (inutile che i latinisti s’immischino in questo arcaismo) rigorosamente custodito da impenetrabile recinto e precluso alla foia di qualsiasi animale maschio.
Cotesto reagente, per reiterate centrifugazioni, operate sempre per cozione e filtro, dinamizza la miscela al punto che bisogna sorvegliare con la massima attenzione la sua espansione nell’alambicco, pena lo scoppio dell’apparecchio e l’irreparabile perdita della sostanza.
Ma se tutto procede con le dovute cautele, mettendo la mano alla estremità della coda, si avvertirà prima una zaffata di aria calda-secca e poi si raccoglierà una sottilissima polverina (polvere di proiezione) che ha la proprietà di “separare” la forza della materia, ma non in maniera esplosiva (niente bombe atomiche!!!) “SIBBENE INDUCENDO TENDENZA ALLA MOBILITA'” nei corpi animati (Ibi mobile).
Però è leggermente stupefacente e afrodisiaca, donde il pericolo, per l’incauto che vi decada facendone cattivo uso, di permanere in simili stati, dando così modo e tempo al serpente sempre vigile di profittare del suo momentaneo incantesimo per divorare il piccolo implume.
Ma l’alchimista austero non si lascia sedurre dalle attrattive erotiche e prosegue imperterrito alla terza operazione.
Egli opera, cioè, una seconda miscela, traendone da un barattolo pronto per l’uso due boccette ripiene di diverse essenze provenienti dalle piante della Repubblica Argentina: una di colore rosso fiammante e un’altra di colore bianco e latteo.
Codeste due essenze hanno proprietà reciprocamente divoranti, talché, messe assieme, si distruggerebbero a vicenda e non lascerebbero altro di se stesse che un odore caratteristico molto noto ai praticanti di alto grado.
Ma fatte cadere a gocce, separatamente, su qualche milligrammo della polverina ottenuta, perdono la loro caratteristica corrodente, si conciliano, cioè, nella natura essenziale dell’eccipiente, e si fondono, sempre per effetto di cozione e filtro, in un amalgama fosforescente dai riflessi arcobaleno.
E qui termina la terza operazione ostensibile, dopo la quale, Maestro e Novizio escono dal laboratorio alchimico, muti come vi sono entrati.
Essi si separano immediatamente con la tacita promessa del Novizio di rivedersi quando il suo IBI avrà messo le penne e gli consentirà di tornarvi col proprio volo, “UNICO MODO DI RIPRESENTARSI PER IL RICONOSCIMENTO RITUALE”, con diritto ad assistere al finale dell’Opera per essere consacrato Maestro Ammoneo nel Sinedrio Eterno dell’Ordine Osirideo Egizio.
Tu avrai con questo mezzo tutta la gloria del Mondo, epperciò ogni oscurità andrà lungi da te. E’ la forza forte di ogni forza, perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida.
A mano a mano che la complessità della vita sociale si è andata organizzando in convivenza sempre più mercantile, sempre più indispensabile è apparso alla base di molti godimenti umani e di molte imprescindibili necessità il possesso dell’oro.
Cotesto metallo, indice dei più svariati poteri, ha sempre esercitato il suo fascino trascinatore sull’animo umano, anche quando ne bastava pochissimo per emanciparsi da qualsiasi asservimento.
Pertanto, la necessità di possederne è stata sempre avvertita in ragione diretta delle brame che può singolarmente soddisfare, o dei vantaggi che collettivamente può arrecare.
Esso splende tra le mani dei benefattori che ne profondono in opere umanitarie, scorre in rivoli fulgenti dalle casse di istituti consacrati al benessere e al progresso umano, ma occhieggia anche alle radici delle più torve cupidigie, si annida nei meandri dei più voraci appetiti, appare sinistro al fondo dei più sordidi interessi e serpeggia livido tra le più basse passioni.
Innalza od annienta, sostiene od abbatte, nutrisce o corrode, ma sempre lusinga e seduce.
Quando, perciò, gli alchimisti metallurgici annunziarono la possibilità di trasformare il piombo in oro, tesero alle turbe degli avidi e dei concupiscenti il laccio più corrispondente alle loro bramosie.
Ne alimentarono le speranze e le illusioni, costringendoli, così, alla custodia gelosa dei loro testi sibillini, alla loro paziente interpretazione ed alla pratica indefessa dei fornelli e delle fusioni, per cui quegli stessi che ambìvano ai tesori – non esclusi principi e prelati – ne profusero a dovizia tra le più pazzesche esperienze.
Effetti utili e sorprendenti ugualmente sortirono dalle varie combinazioni e trasmutazioni, a cui tanto deve la chimica posteriore, né può definirsi impostura un enunciato basato su possibilità analogiche oggi pienamente confermate dalla teoria dell’unità della materia; ma la intenzione di quei saggi era quella di diffondere e tramandare una scienza superiore ad ogni velleità profana, per cui la pratica e lo studio diretti al vagheggiato possesso della ricchezza non fruttò neppure il becco di un quattrino.
Negli antichi tempi, invece, tra coloro che primeggiavano sui volghi la ricchezza era piuttosto diffusa e, pertanto, non poteva costituire sufficientemente miraggio per scomodarli in ricerche, studi ed esperienza affannose.
Occorreva allora polarizzare l’attenzione verso qualcosa di altrettanto eccitante e desiderabile, ed all’uopo fu sapientemente prescelta la potenza fascinatrice della fama.
Il Trismegisto, difatti, promette agl’interpreti del suo verbo “TUTTA LA GLORIA DEL MONDO”.
Ma se delusi furono coloro che tentarono l’alchimia per conseguire ricchezze e tesori, altrettanto può dirsi di quelli che praticano la magia per eccellere nell’opinione del mondo.
I falsi alchimisti, pertanto, perdettero il loro tempo.
I veri alchimisti conseguirono tutti la “GLORIA DEL MONDO” ma per essa, piuttosto che desiderarne, sacrificarono e spregiarono l’oro e la fama, vivendo una vita tristissima, spesso conclusa nella persecuzione, nella miseria, nelle carceri e, talvolta, nel rogo e sul patibolo.
La storia nota ufficialmente e quella conosciuta dai discepoli intimi narra le vicissitudini di cotesti eroi – spesso oscuri ed ignorati – sempre vilipesi e calunniati, talora brillanti per ingegno eccezionale, tal altra stranamente piatti, incolori e stremati, circonfusi di piccole o grandi leggende, mitici o spiccioli per breve tempo luminosi come meteore, per lungo tempo pietosamente sopraffatti da se stessi e dal mondo… da quel mondo che avrebbe dovuto glorificarli!
Mentiva, dunque, il Trismegisto?
No. Mendace e falsa è soltanto l’interpretazione dei deviati, che alle sue parole attribuiscono non il significato che hanno, ma quello relativo alla propria “forma mentis” profana ed impreparata, causa dei più amari disinganni.
Ecco perché le alte iniziazioni sono precedute da “preparazioni” apposite, spoliative di ogni sovrapposizione culturale specifica, per il denudamento del proprio “mono” mentale, puro, unico interprete del retto senso di tutte le cose.
L’ingegnere, difatti, il medico, il matematico, il filosofo imbevuti delle loro teorie, specialmente oggi che la scienza schiamazza i suoi postulati con un apparato suggestivo senza riscontro nei tempi, non possono prescindere dal proprio patrimonio di idee accettate.
Essi, pertanto, in presenza dello strano linguaggio ermetico – qualora si dilettassero senza la dovuta preparazione ad investigarne il senso – non potrebbero sottrarsi ai riferimenti della propria dottrina ed in coordinazione con questa ne tenterebbero le più pasticciate interpretazioni.
Un esempio di interpretazione corrispondente ai sogni più comuni, alle aspettazioni più profane, alle velleità più specificatamente inerenti alla goffaggine umana, che amerebbe asservire l’altissima scienza dell’Assoluto alla miseria delle proprie vanità, è proprio questo della “gloria del mondo”.
Ma dopo il tanto che si è detto sul senso vero di questa parola è chiaro, invece, che esso (il mondo) partecipa direttamente alla creazione del “corpo glorioso” (questa e non altra è la sua gloria) creazione eccezionale ed alchimica, veste indistruttibile dell’IO, trionfatrice della morte e disimpegnata dalla catena delle nascite umane, per cui l’Adepto, è figlio di se stesso, erede della propria storia, immortale e redento dalla fermentazione venerea che assoggetta le anime alle imposizioni reincarnative.
Egli è totalmente integrato con l’eterno del proprio essere, aperto alla vita ininterrotta dell’intelligenza, superiore e Signore della razza da cui proviene, della quale ha precorso l’evoluzione finale in una cruda e coraggiosa sintesi delle tappe naturali.
Ecco perché il testo prosegue:
“e ogni oscurità andrà lungi da te”.
Non si tratta di brillare quale astro di prima grandezza fra gli applausi della platea umana, non si diventa un luminare insignito di onori e di decorazioni, glorificato da turbe, prosternate a tanto passaggio sulla ribalta terrena.
Tutto ciò in lui è consumato come nelle ceneri il fuoco.
Ma l’oscurità è relativa agli antri, alle caverne, alle matrici, ove si incontrano e si sviluppano i germi delle vite; uteri di fecondazione vomitanti forme periture.
Ed egli non vi può ormai decadere, perché immortale ed eterno.
Tale oscurità andrà lungi da lui. Ma se una missione umana elegge od è chiamato a svolgere nella sfera degl’incarnati, in ben altro modo che non coercito da un accoppiamento animale assolverà il compito suo.
Più sibillino, quanto più grandiosamente allusivo al finale dell’Opera, è il resto della proposizione:
“è la forza forte di ogni forza, perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida”.
Codesta “veste gloriosa” difatti è proiettabile, da vivi, fuori del corpo, in una gamma variabile che va da certi “inizi precisi” fino a sua completa condensazione, a seconda del grado di “separando” conseguito.
Ecco perché, giunta al massimo di sua formazione, vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida, vale a dire si affermerà come secondo corpo, indipendente e resurrettivo, tale da imporsi alla obbiettività di qualsiasi controllo, come cosa reale, fisica, tangibile, capace di rendersi evidente (oh, San Tommaso!) e di sparire riassorbita dalla volontà di emissione che ne comanda la esteriorizzazione totale.
E’ in questo modo che il mondo fu creato.
Vedi commento alla quinta proposizione.
Da questa sorgente usciranno innumerevoli adattamenti, il cui mezzo si trova qui indicato.
Dalla sorgente di questa Scienza, cioè dalla Fonte Iniziatica – Unica Fonte di scienza “umana” eterna ed assoluta – la catena ininterrotta dei Maestri sperimenterà il Vero degli enunciati sinedriali in applicazioni innumerevoli.
Esse saranno in rapporto col quadro dei tempi, attraverso i quali tramanderanno in riverberi adatti alla evoluzione umana la continuità della Luce, preparandone l’avvento finale per il trionfo radioso dei suoi abbaglianti fulgori.
Gli Ordini costituiti, pertanto, ed i singoli Maestri riusciti, hanno sempre prescelta una finalità “rivelatoria” a cui sono rimasti fedeli “usque ad mortem” qualunque sia stata la sorte collettiva (vedi Templari, Rosa-Croce, ecc.) o personale (consulta le vite) che COME UN SIGILLO, ne ha consacrata la volontà nella storia umana di tutti i tempi.
E’ per questo motivo che io venni chiamato Ermete Trismegisto, perché possiedo le tre parti della filosofia del mondo.
E’ noto che non esiste alcuna filosofia tripartita. La filosofia anzi è sintetica e riassuntiva, riassorbendo in sé tutta la conoscenza umana per la celebrazione di un Vero Universale, attinto alle risultanze ultime del sapere scientifico, in contrasto col quale non potrebbe sostenere alcunché di valido e di rassicurante.
Peraltro, il pieno possesso di una triplice filosofia, come teoria puramente concettuale e discorsiva, sarebbe ben povera cosa e non chiarirebbe il motivo per cui Ermete fu chiamato Trismegisto.
Tris-meg-isto, difatti, è corruzione di Tris-mag-isto (Tri-magister vuol dire Maestro di terzo grado) il che significa che Ermete esercitava il triplice “mag” dei corpi lunare, mercuriale e solare, cioè della santissima (separatissima) Trinità.
E l’autore, da quello che dice nella sua tavola, depone effettivamente in favore della qualità che si attribuisce. La parola “filosofia” vale – come nel suo senso puramente etimologico – “conoscenza”.
Ma per l’iniziato “conoscere” significa “essere”.
Pertanto, il Trismegisto “era” cioè possedeva le tre parti dell’essenza del “mondo”.
Ed essendo il mondo ciò che ripetutamente si è detto, vuol dire che il Trismegisto era assurto a “trinità separata e gloriosa” individuo assoluto e magnifico Eone della vita umana nell’eterno delle essenze pure.
Ciò che ho detto dell’operazione del Sole è perfetto e completo.
E’ l’assicurazione finale, che richiama l’insistenza iniziale, a chiusura del ciclo esplicativo.
L’operazione del Sole, difatti, indicata nella quinta proposizione, racchiudendo intero il problema trasmutatorio, i mezzi ed i risultati, può considerarsi perfetta e completa.
L’aureo Maestro J. M. Kremmerz diceva:
“Positivamente le investigazioni su queste ricerche, su questi studi, su queste idee, che presuppongono una deliberata preparazione in chi si accinge a intraprenderle, non sono di moda…
…L’Ermetismo, la magia cabalistica, la filosofia dell’Occulto e dell’Invisibile?
Troppo tempo, troppa fatica, troppa perdita di tempo!”.
Ed ancora:
“Con un senso d’amarezza profonda scrivo due parole d’introduzione alla lettura degli “Elementi di magia naturale e divina” …Credevo l’umanità molti secoli più innanzi e in venti anni non ho realizzato che assaggi e prove. Niente di concreto… cioè di concreto le molte noie che mi son fabbricate con le mie mani”.
Con quale speranza io, suo lontano discepolo, ho collaborato alla diffusione delle stesse idee su codesta Rivista ospitate?
NESSUNA.
Io so che i tempi sono mutati; ma in peggio.
Mi è stato ordinato di parlare ai Circoli esterni ed interni, di coordinarli entrambi con voce più esplicita verso le rispettive finalità e di richiamare all’ordine gli inadempienti.
Ho obbedito.
Non mi resterebbe, se ne avessi qualche speranza, che ripetere col “sempre presente” J. M. Kremmerz:
“Una sola cosa desidero: che gli studiosi di ermetismo magico, italiani, non si separino, non si dividano, non si combattano tra di loro in aride polemiche, ma come FIGLI DELLA GRANDE ARTE si tengano stretti intorno al punto criticissimo della ricerca per la scienza più umana che l’uomo sia mai audacemente pervenuto a possedere”.
Ma io non ho questa speranza.
Hahajah