PIÙ DAPPRESSO E OLTRE IL LIMITE

Una delle prove SPERIMENTALI che l’iniziato consegue dalle sue pratiche magiche è uno stato speciale del suo essere, o concordanza con l’Uno-Universo, o col suo principio solare, per il quale egli effonde in una coscienza panica, densa di intuizioni e di conferme, di rivelazioni e di certezze, che l’uomo ordinario è ben lungi dal sospettare e dal realizzare.

Non è che egli si trasferisca «su un altro piano», o che egli sia «altro» da ciò che è, o che perda la propria identità, per confondersi o fondersi estatico in Intelligenze a lui superiori, o che si dilati in una coscienza cosmica che gli è estranea e che solo momentaneamente gli è consentito sondare.

Al contrario: egli soltanto allora si identifica con se stesso, si ritrova, si riconosce per ciò che è, oltre i limiti della coscienza ordinaria, circoscritta ed elementare, a cui per abito di vita si è assuefatto, come volgendo altrove lo sguardo dal Geova creatore, che è lui stesso, disingannato e disincantato dalla propria immagine di creta, idolizzata per tradimento al comandamento divino.

Egli allora non vede più «fuori» di se stesso, non è più l’osservatore di un mondo «esteriore» schiavo delle dimensioni più grossolane, ma per effetto di introspezione ATTINTA IN STATO DI COSCIENZA UNIVERSALE vede in sé… e non vede soltanto se stesso.

Non è escluso che in tali condizioni possa venire a trovarsi – molto raramente – anche l’uomo ordinario per un «salto spontaneo» della propria coscienza dovuto a precedenti che riguardano la storia della sua personalità, o a circostanze, neppure esse fortuite, drammatiche ed eccezionali che improvvisamente interferiscono col suo modo abituale di sentire.

Ciò, peraltro, è molto differente da quanto avviene in chi abbia realizzato una simile «modalità di essere» attraverso una scienza ed una tecnica precise che ne fanno un iniziato, un uomo, cioè, che segue una evoluzione propria, distinta, inconfondibile con la normalità, nonché dissimulata e solitaria, per la sua stessa natura incomunicabile e non accomunabile.

Chi tocca od oltrepassa impreparato simili limiti si smarrisce nell’estasi (nei casi più bassi: medianità e fenomeni paranormali) o perde la propria identità, come i primitivi, in una coscienza labile primordiale, per cui scivola fuori di se stesso.

L’uomo ordinario, insomma, considera la realtà e ne consegue coscienza in relazione alle dimensioni che gli sono note quelle, cioè, che egli ha integrate.

Egli, però, non ha integrate tutte le dimensioni dell’esistente e tanto per riferirci a quella più comunemente diffusa, egli ha una coscienza ancora «esterna» alla dimensione tempo, la quarta, la rivoluzionaria dimensione che opera tali trasfigurazioni del reale da rendere solubili problemi teorici, pratici e tecnici di notevolissima importanza e tale da sembrare assurdi al lume della ordinaria geometria tridimensionale euclidea.

L’osservatore ordinario, difatti, di una qualsiasi forma concreta, in presenza di un aggregato materiale, si sofferma a considerare tutti gli attributi possibili nei limiti delle tre dimensioni che gli conferiscono carattere di concretezza, ma tralascia di pensare che se l’oggetto preso in esame «non fosse mai esistito» egli non avrebbe potuto averne notizia.

Ma l’essere esistito vuol dire avere avuta una origine e avere una durata e cioè esser stato condizionato dalla dimensione tempo che è inerente a ogni forma dell’esistente e ne costituisce il più impalpabile attributo, perché manca ancora nell’uomo comune il «senso» o lo sviluppo di un «senso» corrispondente che gliene dia la percezione «ASSIEME» alle altre dimensioni con le quali esamina la realtà.

Sfugge, peraltro, all’uomo ordinario che egli stesso, aggregato materiale come qualsiasi altro, è sottomesso alla medesima condizione non integrata della sua coscienza ancora tale, cioè, da non potergli dare un senso compiuto di se stesso.

E difatti, quando egli dice: «io sono» cosa intende dire?

«Io sono» è un presente, ma cos’è un presente se non qualcosa che avvertiamo nell’istante stesso in cui si compie?

Il presente è un nulla, un punto geometrico senza dimensioni e consegue realtà solo per la constatazione che ne facciamo su uno sfondo a limite, oltre il quale diventa passato.

L’uomo, dunque, che dica «io sono» dovrebbe tener conto che può dirlo nel momento in cui lo dice e in ogni altro successivo momento della sua vita fino alla morte; di volta in volta esprimendo, pertanto, solo una limitazione, una frazione del suo completo passaggio nell’essere come uomo.

L’espressione «io sono» è presente, ma egli è presente per tutta la durata della sua vita e in conseguenza del carattere stesso del presente, come sopra ricordato, e in relazione all’esistenza umana l’espressione in parola avrà significato e valore pieni solo nell’estremo istante in cui chi la usa sta per non essere più (alla vita umana s’intende).

Pertanto, l’uomo esprime compiutamente l’«io sono» solo quando a ciò riferisce tutto quanto lo riguarda fra i due estremi nascita e morte, il «fui» e il «sarò» precedendo e seguendo i suddetti limiti.

In ogni altra occasione egli non esprime che una tappa o momento della sua esistenza e non «tutto» il suo presente, che ha la durata stessa della sua vita.

Per potere anche durante le suddette tappe dare un senso veramente compiuto alla espressione «io sono» per poter, in altri termini, prendere in considerazione la propria realtà presente, non soltanto in base alle tre dimensioni abituali, ma anche in funzione della quarta dimensione, gli occorrerebbe aver integrata quest’ultima e ciò, se l’ipotesi non è ripugnante, farebbe dell’uomo un essere in ogni istante cosciente di tutto quanto lo riguarda, dal suo primo all’ultimo respiro.

In tal caso – rassegnato o ribelle al suo Fato – egli vedrebbe chiaramente in se stesso e probabilmente anche fuori di se stesso, come, nei limiti delle dimensioni integrate, vede chiaramente in sé e negli altri. Salva la possibilità di sondare il «fui» e di precorrere il «sarò» che completerebbe l’auspicato ascenso del nosce te ipsum.

Cotesto essere umano – se fosse possibile – vivrebbe certamente in uno stato di coscienza che intendere non può chi non la prova e analogamente dicasi del «vero» iniziato che trae dal proprio ermete modalità di essere e di coscienza a volte generali e comuni a tutti coloro che battono la stessa via, altre così intime e soggettive da assumere carattere di sublimi equazioni del pensiero a incognite varie conoscibili solo da chi le ha raggiunte nei lampi dell’incandescenza ermetica personale.

Hahajah

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